Post più popolari

lunedì 17 settembre 2012

Contro la violenza del drink facile educare alla civiltà del bere.


Drink venduti sottocosto che fanno stordire i ragazzi. Riempiti di prodotti di cattiva qualità. Drink cha si bevono a mezze dozzine, perché costano un euro e mezzo l’uno. Come è accaduto a Mestre, dove un gruppo di ragazzi resi poco lucidi da grandi quantità di spritz low cost hanno aggredito il fratello del maestro Sinopoli, fino a farlo finire in coma. Lui stava solo cercando di raggiungere la sua casa, di farsi largo con l’auto tra il gruppo di clienti di uno dei bar della movida della terraferma veneziana.
L’aggressione di Sinopoli, una famiglia già segnata dal tragico destino del direttore d’orchestra morto sul palco a Berlino nel 2001, ha convinto il Comune a intervenire. Il sindaco Orsoni e il suo vice Simionato hanno avviato una campagna contro i drink low cost, chiedendo ai locali di rispettare una serie di regole. Ci sarà il bollino blu per i bar che allestiranno spazi per la “decompressione” dei clienti che hanno bevuto troppo, che garantiranno servizio di trasporto, postazione di primo soccorso e altro ancora per evitare che il rito dell’aperitivo si trasformi in un incubatore di sballo e di comportamenti aggressivi. I baristi che sgarrano rischieranno la sospensione o la revoca della licenza.
Misure sacrosante, ma che dovrebbero essere accompagnate da una sorta di educazione civica, una svolta culturale sul modo di bere di cui si sente il bisogno non solo in Veneto per quanto riguarda il rapporto tra alcool e giovani generazioni.
Bisognerebbe insegnare ai ragazzi, iniziando dalle scuole, quali siano i danni di bevute senza limiti, senza attenzione a quello che si butta giù, con il solo scopo di perdere la lucidità.
Insegnare la differenza tra un drink spacca-cervello e un buon bicchiere di vino, dietro al quale c’è la storia di chi lo fa.
Come fece il padre del critico Luigi Veronelli quando diede al figlio ragazzino il primo bicchiere. Lo raccontò Veronelli stesso. “Mi fermò mentre stavo portando il bicchiere alla bocca, mi disse che prima dovevo guardare il colore unico, sentire il profumo altrettanto irrepetibile, e poi pensare che dentro c’era la fatica di un contadino”.
Ecco, spiegato così forse l’aperitivo non sarebbe solo un liquido da tracannare.

Post tratto dall’articolo di Luciano Ferrero pubblicato dal Corriere della Sera del 11 settembre 2012.

martedì 4 settembre 2012

Finiti la strada e l'oratorio, questo è il problema


In Italia  o ci si iscrive a una scuola di calcio o non si gioca e già ai bambini di 8 anni viene chiesto di uniformarsi.
Il problema del nostro calcio giovanile non è che i migliori vanno all’estero. Magari ne andassero cento, avremmo cento possibilità in più di costruire un buon calcio. Né che si fa tardi farli debuttare. Una buona squadra non si vede in base all’età, ma al rendimento dei giocatori. E un 27enne gioca quasi sempre meglio di un 20ene.
Il problema dei nostri giovani è che li imbalsamiamo fin da bambini perché sono diventati il vero affare del calcio. Lo scandalo è che un bambino, in Italia, per giocare a pallone, può soltanto pagare. O va in una scuola calcio o non gioca. Centinaia di migliaia di ragazzi militarizzati, spesso sovrappeso, in tute e magliette autofinanziate, condannati a giocare secondo i comandamenti dei grandi. Finita la strada, l’oratorio, finito l’estro individuale, finita la coscienza critica, la selezione naturale, finita la libertà di correre dietro un pallone perché a otto anni c’è già chi ti chiede, t’impone, di uniformarti.
Il problema del calcio dei giovani in Italia è questa melassa con cui si dà in pasto ai genitori l’illusione che i loro figli possano essere campioni semplicemente perché (pagando) giocano.
E la terribile forza, insopportabile, con cui i genitori vi si dedicano, convinti che il calcio non sia il divertimento del bambino oggi, ma il loro prossimo mestiere.
Cosa resta della qualità individuale in questo mondo dove si paga per giocare tutti gli stessi minuti, straordinario socialismo del niente, e dove alla fine non vince nessuno perché l’agonismo non è etico? Il calcio italiano non pensa ai giovani, non ne ha il tempo. Sono incidenti di percorso, distrazioni, tornino quando saranno grandi. Il calcio ha un sacco di altri problemi. Nel frattempo paghino.


Post tratto dall’articolo di MARIO SCONCERTI pubblicato dal Corriere Della Sera del 9 luglio 2012.